Articolo di Sonia Vincenzi
Le politiche di inclusione e diversity incidono positivamente su ricavi e soddisfazione dei clienti, eppure non tutte le aziende sono in grado di cogliere questi benefici.
La difficoltà si riscontra principalmente nelle imprese di piccole e medie dimensioni che sarebbero quelle che ne beneficerebbero maggiormente. Sebbene anche le grandi imprese non siano perfettamente allineate e non tutte hanno compreso che non si tratta di una semplice strategia di comunicazione.
Dietro le politiche di inclusione e diversity c’è molto di più.
C’è una visione strategica ben definita e consapevole dei mutamenti sociali, culturali e di sviluppo dell’organizzazione e dell’impresa in generale.
Per tale ragione il 90% delle imprese attive a livello globale fatica a implementare politiche di inclusione e diversity all’interno dei propri team.
La crescente pressione sul reclutamento di talenti con competenze qualificate e polivalenti indotta dalla pandemia rischia di generare un dietrofront sul versante dell’inclusione e della diversità.
Non solo di genere.
Secondo un nuovo studio del Capgemini research institute, intitolato The key to designing inclusive h: creating diverse and inclusive teams, il 90% delle imprese attive a livello globale fatica a implementare politiche in tal senso all’interno dei propri team. Una situazione che, secondo i ricercatori, rende necessaria una rinnovata attenzione da parte di imprenditori e manager deputati a gestire le imprese oggi.
A meno che non intendano perdere occasioni in termini di innovazione, ricavi e valorizzazione del brand.
Stando allo studio, infatti, le pratiche di inclusione e diversity rappresentano un driver di innovazione e differenziazione nel 67% dei casi, consentono un’impennata dei ricavi (56%) e migliorano la customer satisfaction (51%).
Il dato è ancora più interessante se prendiamo in considerazione la difficoltà delle aziende nel reperire risorse sul mercato per via della richiesta di nuove e diverse competenze. In Italia non laureiamo sufficienti ingegneri, medici, né diplomiamo periti o persone con qualifiche professionali di tipo tecnico e non solo …
Uno studio stima che l’83% dei millennial si sente maggiormente coinvolto quando ritiene che la propria azienda promuova una cultura inclusiva.
Una forza lavoro diversificata porta infine più creatività e idee oltre ad essere in grado di esaminare criticamente una tematica su più livelli e di comprendere meglio e in anticipo le esigenze dei clienti.
La difficoltà incontrata deriva principalmente dal fatto che per tradizione, la gestione delle risorse umane viene limitata ad aspetti di carattere amministrativo-contrattuale perché “si è sempre fatto così” ma oggi servono politiche e cultura orientate all’inclusione e alla diversity su tre livelli: bene-essere, bene-stare, bene-fare.
Servono dunque anche in questo caso competenze nuove che non possono essere improvvisate o demandate all’amministrazione.
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