Articolo di Sonia Vincenzi

Esattamente quindici anni fa, scrissi un articolo dal titolo “la gestione delle risorse umane nell’epoca delle passioni tristi”, vediamo cosa è cambiato in questi anni.

Il mondo della formazione, della consulenza, dell’economia oggi è fatto di slogan, spacciati per nuovi ma che di nuovo non hanno proprio nulla.

Esempi? 

Rimettiamo le persone al centro”; sono anni che sentiamo questa frase ma di fatto ciò non accade, o accade talmente di rado da far esclamare “wow!”. 

È il caso di Brunello Cucinelli, un imprenditore visionario che ha creato una realtà unica e irripetibile nel suo genere, grande sostenitore nella necessità di un “nuovo umanesimo” (altro slogan che sentiamo da anni e io stessa ho scritto articoli sul tema ben 12 anni fa).

“Servono nuove competenze”; servono sempre nuove competenze e serviranno sempre di più perché il mondo non si ferma mai, la vita va avanti, la tecnologia cambia continuamente i nostri stili di vita, di acquisto, le nostre abitudini, il concetto di lavoro ed il nostro modo di lavorare cambiano ….

Per non parlare di “cambiamento”: ne parliamo tutti da anni, ma ben poco è stato fatto. I consulenti, categoria di cui a volte mi vergogno di far parte, non hanno avuto il coraggio di proporre nulla di nuovo, gli imprenditori di fatto non sono stati stimolati a cambiare, la formazione è stata utilizzata spesso senza una logica strategica e quindi di fatto nulla è cambiato nella sostanza.

Allora mi sorge spontanea una domanda: perché?

I risultati significativi in genere non sono mai il frutto del “fanatismo del fare” o di mode e slogan ma del pensiero, della capacità di leggere i segnali deboli di un mondo che deve andare avanti tra innovazione, tradizione e rivoluzione. Con qualche rischio certo, ma il futuro non è fatto per persone che non hanno coraggio! 

È quello che ha fatto Brunello Cucinelli che forse è l’unico imprenditore italiano che ha saputo racchiudere tutto: emblema del nuovo umanesimo in azienda, del rispetto, della sostenibilità, della tecnologia ma allo stesso tempo cultore delle tradizioni. Allora cos’è che fa la differenza in questo caso? La risposta è semplice: la cultura.

Riporto, di seguito, il suo credo.

 “Credo in un’impresa umanistica: un’impresa che risponda nella forma più nobile a tutte le regole di etica che l’uomo ha definito nel corso dei secoli. Sogno una forma di capitalismo umanistico contemporaneo con forti radici antiche, dove il profitto si consegua senza danno o offesa per alcuno, e parte dello stesso si utilizzi per ogni iniziativa in grado di migliorare concretamente la condizione della vita umana: servizi, scuole, luoghi di culto e recupero dei beni culturali.”

Il suo amore per la ricerca, la cultura antica, lo studio, l’approfondimento, il guardare il mondo con lenti diverse, capire gli umori della gente, ciò che le sue persone avevano più bisogno, il riflettere sul fare la differenza, l’ha portato ad essere oggi un imprenditore con riconoscimenti anche internazionali per la sua idea di “capitalismo umanistico”.

Chi fa veramente la differenza, come in questo caso, non si affida all’esperienza e non fa affidamento su strategie e tattiche utilizzate con successo in passato e sicuramente si mette in continua discussione, perché solo così ci si evolve. 

Questo è ciò che manca agli imprenditori oggi che finiscono per vivere frustrazioni importanti.

Appare chiaro che tutte le teorie prese in prestito dall’arte bellica o slogan del tipo “experience is the best teacher” sono del tutto superate, inadeguate e pertanto inutili. Non esistono più modelli che si possono standardizzare e quindi applicabili a qualunque tipo di organizzazione, ma realtà uniche e irripetibili così come le persone che ne fanno parte. 

La consulenza pertanto deve operare affiancando le imprese con un approccio globale e personalizzato in grado di assicurare risultati misurabili riscontrabili dai dati economici e dalla soddisfazione delle persone che operano all’interno delle organizzazioni stesse (bene-essere organizzativo), realizzando percorsi e progetti di crescita dell’impresa e delle competenze necessarie affinché ciò si concretizzi con tutte le difficoltà che ci sono oggi nella gestione del capitale umano. 

E ora vedremo perché è diventato tanto difficile gestire le persone in azienda.

Quando non si cura la leadership dei capi in modo specifico, ovvero il particolare stile di leadership di ciascuna persona, ciò che accade è che tutti si muovono senza senso, come accade ad Alice nel Paese delle Meraviglie:

 “Qui, invece, vedi, devi correre più che puoi, per restare nello stesso posto. Se vuoi andare da qualche altra parte devi correre almeno il doppio”.

Una frenesia che drena energie e spreca risorse temporali, economiche e umane. Oggi non ce lo possiamo più permettere ma siamo ancora molto lontani, almeno in Italia, da una vera e propria cultura di sviluppo del capitale umano. 

Oggi le persone nelle aziende mediamente vivono in una sorta di frustrazione continua alla ricerca disperata della propria individualità, non facile da realizzare né tanto meno da mantenere. 

“Nuovi segni di distinzione in offerta promettono di condurti alla meta e di convincere chiunque incontri per strada, o venga a casa tua, che ci sei arrivato davvero, ma al tempo stesso invalidano i segni che avevano fatto la stessa promessa un mese, un giorno, prima. La corsa all’individualità non dà requie” 

È una situazione paradossale dove tutti sono alla costante ricerca di qualcosa di non ben definito, dove tutti corrono ed invece sono fermi, immobili in un’angosciante staticità. 

Con la pandemia si è aggiunto un ulteriore problema, oggi noto come Embodied.

La connessione ci fa stare in una relazione non fisica che alimenta il bisogno bulimico di essere visti, di avere più like, di postare più foto, di comunicare in qualche modo la propria esistenza. Un’esistenza virtuale senza corpo. Questa condizione sta già creando situazioni allarmanti, specie tra i giovani. 

Il sentire il corpo ci dà una direzione, ci fa sentire vivi e ci muove all’azione. L’anestetizzare il corpo genera stati di ansia, aggressività, smarrimento da non sottovalutare.

In questa situazione le persone non crescono, non si sviluppano, non sprigionano la propria creatività, la propria immaginazione, non hanno sogni, vivono giorno per giorno in una sorta di limbo inconsapevole e deresponsabilizzante. 

In altre parole, non c’è progresso. L’evoluzione è data dall’immaginazione, dalla capacità di sognare, dalla passione, da qualcosa che ha le radici nella propria identità. Ecco perché diventa importante per le organizzazioni occuparsi anche delle identità delle persone ed aiutarle a realizzarsi. Lo sviluppo e l’armonizzazione delle diverse identità è l’unica cosa che può fare la differenza all’interno di una realtà organizzativa.

Ricordiamoci sempre, come dice Giancarlo Orsini che:

“L’ovvio di oggi, è l’impossibile di ieri”

E senza immaginazione non è possibile realizzare l’impossibile.

Consideriamo che la scomparsa dei confini e i nuovi mezzi di comunicazione mettono a contatto le persone con mondi, umanità e realtà prima inimmaginabili e tutto questo comporta in qualche modo una ridefinizione e un ripensamento delle dimensioni di sé nel mondo. 

Che progetto sono io in questo mondo?

La perdita di punti di riferimento unici e assoluti, il moltiplicarsi di punti di vista, di visioni del mondo, di opportunità di scelta, l’instabilità e la problematicità dell’esperienza possono generare una sorta di “tsunami” cognitivo ed emotivo, ovvero uno smarrimento tale che può accrescere la paura di affrontare il futuro. 

E questa è una situazione reale che molti imprenditori oggi stanno vivendo.

“La sconfitta dell’ottimismo lascia non solo senza promesse future ma, peggio ancora, con il sentimento che perfino evitare l’infelicità sia un compito troppo arduo”. 

La nostra società è la prima che, possedendo delle tecniche, ne è anche, al tempo stesso, letteralmente posseduta. Ci limitiamo a premere dei pulsanti, ignorando il più delle volte quali meccanismi vengano innescati. 

Questa realtà storica produce inevitabilmente una soggettività straniata, un sentimento di estraneità rispetto al mondo circostante. 

Il mondo e gli altri diventano oggetti d’uso, e i giovani sono perennemente bombardati da messaggi pubblicitari su internet che li invitano a diventare i valorosi predicatori dell’ambiente che li circonda”.

Questa è l’ambivalenza che contraddistingue la realtà attuale, sempre altalenante tra la comodità offerta dalle moderne tecnologie e l’ignoranza di non sapere pienamente come funzionino o come possano essere orientate o dominate. Ne è un esempio Amazon, che durante la pandemia ha conosciuto uno sviluppo incredibile e dove la comodità di ricevere a casa, in un solo giorno, la merce ha indotto nelle persone una sorta di dipendenza all’acquisto.

A questo si aggiunge poi la crisi del principio di autorità.

“La relazione con l’adulto è percepita ormai come simmetrica. In una relazione simmetrica, due esseri umani stabiliscono tra loro un rapporto di tipo contrattuale: nulla predefinisce la relazione al di fuori della relazione stessa”.

Tutto questo paradossalmente apre la strada a varie forme di autoritarismo che vanno dalla coercizione alla seduzione di tipo commerciale. L’autoritarismo si basa su un principio di forza “io comando, tu obbedisci”. Diversamente l’autorità si fonda sull’esistenza di un bene condiviso, di un medesimo obiettivo per tutti: “io ti ubbidisco perchè tu rappresenti per me l’invito a dirigersi verso questo obiettivo comune”. 

Assistiamo ad un allungamento dell’adolescenza. Le persone diventano autonome tardi e vivono periodi di crisi adolescenziali fino a tarda età (35-40 anni e qualche volta oltre). 

Il vivere in continuo stato di emergenza, cercando sempre di rimediare, tamponare senza avere il tempo di programmare e di pensare. E questo stato di emergenza continua riguarda la vita privata, il lavoro, le relazioni ed anche le organizzazioni stesse. Concedersi il tempo di pensare appare al giorno d’oggi un lusso pericoloso, che lascia senza difese di fronte a ciò che viene percepito come contesto ostile: c’è sempre qualcuno che ci fa la guerra, che vuole il nostro posto, le nostre cose, che occupa i nostri mercati, ecc… 

Viviamo insomma nell’epoca delle passioni tristi. Dove la tristezza non è quella che genera il pianto o la sofferenza quanto quella che deriva dall’impotenza e dalla disgregazione: la tristezza prodotta dalla delusione e dalla perdita di fiducia.
Chiunque si occupi di sviluppo del capitale umano deve fare i conti con le passioni tristi. E qui si apre la porta ad un bisogno fondamentale per le organizzazioni che consiste nell’individuazione di nuovi bisogni formativi in grado di dare una lettura del reale, utili a gestire le criticità specifiche, i cambiamenti ed il senso di insufficienza e vulnerabilità delle persone, accompagnandole verso la scoperta di sé, la realizzazione di una identità autonoma. 

Occorre lavorare sulle emozioni (Emotion Management), organizzando e gestendo le competenze emotive prima ancora di quelle “di mestiere”, perché solo così si può liberare lo spirito creativo, il senso di collaborazione, la percezione del sé e dell’altro, la disponibilità a farsi coinvolgere, la responsabilizzazione diffusa, lo sviluppo. 

In sostanza cosa è cambiato rispetto a quindici anni fa? Nulla! La pandemia ha solo accelerato un processo di presa di coscienza che o si cambia o si è destinati a chiudere.