Articolo di Sonia Vincenzi

In un mondo dove non è importante quello che sai o meglio ancora quello che sei ma quello che sai fare, nessuno è allenato ad affrontare il futuro.

Lo abbiamo scoperto come una porta sbattuta in faccia violentemente in questo ultimo anno e ancora oggi le resistenze al cambiamento si fanno sentire. Eppure, di cambiamento si parla da sempre. Cosa non ha funzionato?

Non ha funzionato il sistema scolastico, non ha funzionato un sistema impresa ancora ancorato a modelli tayloristici o a modelli, per non dire sogni, di imprenditori partiti da un garage e diventati leader al mondo di un prodotto, come se l’essere non fosse più importante del fare in questi casi … Eppure, ognuno di noi ha frequentato mille corsi dove docenti più o meno preparati hanno cercato di insegnarci a fare qualcosa, o sull’ottenere risultati super performanti, finendo per essere sempre più frustrati. Nessuno ci ha preso per mano e ci ha fatto lavorare sull’essere, sul saper essere, sulla consapevolezza.  

Tutti aspetti che sembrano non appartenere alla sfera sociale, economica, scolastica. Peccato che il saper fare senza il saper essere non sta in piedi, non è efficace, non serve e spesso fa danno. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.

La formazione viene considerata meno di zero e non solo nelle imprese. D’altra parte, se per formare una persona ci vuole almeno un anno, il rischio è che dopo un anno quelle competenze siano già obsolete. E allora cosa abbiamo fatto? Abbiamo dato alla formazione un abito moderno con metodi e contenuti vecchi: ora si fa formazione online utilizzando piattaforme più o meno sofisticate. Peccato che il sistema sia sempre lo stesso: imparare una cosa dopo l’altra ripetendo lo stesso schema scolastico perché l’unico noto. Purtroppo, se la scuola ha fallito, alle imprese lo stesso metodo non può andare meglio … 

Pensare che siano le aziende a farsi carico nel ridurre il gap formativo è come credere alla favola di Babbo Natale con la slitta parcheggiata in doppia fila e le quattro frecce accese. La motivazione è per lo più legata al fattore temporale. Se impiego la metà del tempo per formare le persone al fine di renderle autonome e pienamente inserite nel ciclo produttivo, ho ottenuto un potenziale vantaggio competitivo nei confronti magari di un’altra azienda che ci avrà messo il doppio del tempo ma sempre troppo tempo impiego senza avere la certezza dei risultati e, soprattutto, che alla fine le competenze acquisite siano ancora utili.

Serve un metodo diverso!

L’equazione “maggiori competenze = maggiore produttività”, ha contraddistinto le politiche di sviluppo della maggior parte delle aziende, in un contesto dominato da un livello di complessità sicuramente inferiore rispetto a quello che viviamo oggi. Le persone hanno vissuto tutto questo con pacifica rassegnazione investendo, chi più chi meno, nel lento percorso di accrescimento, per lo più inerziale, del loro set di competenze. 

Tutto questo è stato bonariamente tollerato da un sistema focalizzato nel raggiungimento di risultati di breve periodo, senza preoccuparsi, ad esempio, del tema della sostenibilità. Pensare al “presto e subito” ha cancellato dal lessico aziendale la parola futuro. 

Ci penserà qualcun altro, se ne avrà voglia; e poi perché cambiare lo stato delle cose quando tutti fanno così?

Questo, per semplificare, il pensiero dominante che ha caratterizzato una cultura manageriale totalmente improntata sulla cultura del fare. 

Gli effetti distorsivi di questo tipo di approccio hanno prodotto una serie di problemi o più in generale un forte disallineamento tra il sistema di competenze e il doversi confrontare con un mercato senza più dei precisi punti di riferimento. A nuovi mestieri corrispondono giocoforza nuove competenze e questa – che all’apparenza può apparire come una semplificazione – mette a nudo le profonde contraddizioni che ogni cambiamento porta con sé. 

Il vero problema è che non siamo allenati al futuro

Qualcuno ha pure provato a spiegarcelo; ma eravamo a capo chino sul nostro smartphone, controllando ogni due per tre la spunta blu dell’ennesimo messaggino WhatsApp, e il tempo è inesorabilmente scaduto. Come uno yogurt dimenticato in frigo. 

Poi all’improvviso è arrivata senza farsi annunciare una bella pandemia dal carattere maledettamente distruttivo che in pochi giorni ha spazzato via: abitudini, persone, ruoli, aziende, prospettive ma soprattutto certezze. 

Un futuro fatto di incognite, dubbi, modelli organizzativi cambiati con la frequenza di un paio di calzini, di un’improvvisa e gigantesca mancanza di senso e di tentativi spesso andati a vuoto. Ci siamo così scoperti poco allenati alla dimensione del domani.

Così è successo quello che in buona sostanza era preventivabile e, cioè, che le persone si sono trovate all’improvvisoostaggi delle proprie competenze

Le abbiamo sempre considerate un granitico punto di forza e invece ne abbiamo scoperto il lato oscuro, una gigantesca falla nel sistema. Come uno che investe tutto il “tesoretto” accumulato in anni di risparmio seriale su un solo numero alla roulette

Innamorarsi delle proprie competenze è come sposarsi per corrispondenza, un atto di fiducia incondizionato. Certo, erano altri tempi, caratterizzati da un pigro immobilismo in cui anche il tema delle progressioni di carriera veniva affrontato in modo inerziale, utilizzando automatismi contrattuali o, mutuando un termine giuridico, per usucapione, occupando quella mansione per un numero elevato di anni nei quali le competenze si consolidavano per anzianità. Ora siamo impegnati a fare altro e spesso questo altro non riusciamo nemmeno a spiegarlo a noi stessi. Come criceti giriamo la ruota del fare, ma finiamo col rimanere nel medesimo punto; allora ci guardiamo intorno e scopriamo che il nostro esercito, quello che dovrebbe difenderci, ha le armi spuntate.

E allora, che fare? 

La grande sfida si chiama spendibilità o, per dirla con lessico consulenziale, Employability. La filosofia che anima tutto questo si può riassumere con l’espressione “less is more”, un percorso che Italo Calvino traduce con una parola che ispira buoni propositi: leggerezza. 

Nel recente passato poco o nulla abbiamo fatto per alleggerire, ad esempio, le modalità di apprendimento. 

Le Academy interne (ma anche quelle esterne) hanno finito per rivelarsi degli asfittici corsifici con il risultato di declinare in ambito formativo l’indirizzo aziendale in una logica di breve periodo. Poco o nulla si è fatto per sviluppare una reale cultura del cambiamento, che significa farsi trovare pronti nel momento in cui il cambiamento si palesa.

Ora ci troviamo di fronte ad un esercito di persone che per lo più detengono una sola competenza, magari decontestualizzata rispetto agli scenari attuali. Quelle stesse persone ieri avevano una performance elevata e oggi si scoprono all’improvviso inadeguate. Ecco perché il tempo delle super specializzazioni è finito. Occorre puntare su competenze polivalenti, in grado di modellarsi a scenari diversi, in tempi rapidi e senza inutili sprechi di tempo e di costi.

Le specializzazioni, intese come la concentrazione del sapere in un’unica competenza, oggi e ancor più in futuro, si tradurranno in un oceano di low performer.

Urge parlare alle nostre risorse, di valore di mercato, che aiuta a spiegare il tema della spendibilità in un’ottica nella quale se so fare una cosa ho un valore X ma se accanto alla mia competenza ne aggiungo un’altra il mio valore aumenta e, di conseguenza, aumentano le mie possibilità di Employability interna. 

Il futuro è questo!