Articolo di Gianbattista Liazza
Si va ripetendo quasi ossessivamente che cambieranno molte cose, soprattutto in termini di umanità e di stili di vita. Qualcuno azzarda una definizione: nuovo umanesimo. Magari non sa di cosa parla ma parla egualmente e magari con successo. Bisogna ricordarsi cosa ci fu dietro quei magici momenti che la storia descrive come “umanesimo” e “rinascimento”. Ma non c’è spazio ora, servono argomenti contemporanei e, possibilmente, di qualche valore prospettico.
In molte sedi importanti, i poteri forti come vengono definiti vagamente, da tempo hanno capito che bisogna cambiare il registro, l’ordine dei valori se l’umanità vuole sopravvivere sul pianeta. Recentemente ai vertici del capitalismo mondiale si è cominciato a sussurrare in documenti ufficiali che gli azionisti non devono più essere la preoccupazione principale e prioritaria, ma le persone e l’ambiente vengono prima. Poi è arrivato il COVID-19 e i sussurri sono diventati grida. Se in casa di Autostrade avessero ragionato così non sarebbero crollate le gallerie e il ponte Morandi. Non ci sarebbero stati i morti. Chiaro il concetto?
Se si è capita finalmente la premessa, il cambiamento ci sarà nelle organizzazioni, ovunque. Per scherzare un po’, mica tanto, ricordo di aver messo la cravatta per quaranta anni tutte le mattine; adesso si può lavorare in mutande, ti vedono dal busto in su, a casa tua in ciabatte. Si dovranno costruire case diverse in futuro con annesso ufficio e con annessa aula per le stazioni on line dei bambini. Credo che gli studi ingegneristici ci stiano già pensando.
E al lavoro? Tre elementi saranno dominanti: sostenibilità ambientale, innovazione tecnologica e capitale umano, finalmente.
La velocità segnerà il tempo che verrà. È bene ricordarlo. Il “si è sempre fatto cosi” finalmente va in pensione. Imprenditori e manager che non lo capiranno è meglio che si facciano da parte. Non saranno più utili.
Ritengo che le persone del dopo COVID-19, soprattutto i giovani, si mostreranno molto restie a ritornare ad essere le formichine in fila per timbrare il cartellino, per ripetere ubbidienti i rituali di sempre: farsi i fatti propri, impegnarsi il giusto per non incorrere in errori e prendere le romanzine di capi che invece di capire il perché degli errori preferiscono fare la voce grossa; dove la responsabilità significa colpa (errore madornale di interpretazione della parola); dove i contributi che vengono dal basso non contano nulla; dove partecipazione consapevole e responsabile sono parole che non esistono nel loro linguaggio “manageriale”, nella loro cultura.
Loro sono i capi, di che?
Di organizzazioni del passato che non ci saranno più. Amen.
Ma il cambiamento, anche se più lento, c’è sempre stato ma si è pensato che riguardasse solo la tecnologia. Proviamo a fare un piccolo esercizio di memoria: i capi del personale. Negli anni 60 provenivano dall’arma dei carabinieri, bisognava controllare i dipendenti. Il rapporto di fiducia menzionato dal codice civile dovevano praticarlo solo i dipendenti verso il padrone.
Negli anni 70, chissà perché? Arrivò lo Statuto dei lavoratori e allora servivano capi del personale laureati in legge, la materia dei diritti diventava complessa, c’era stato il 68. Intanto la società cambiava, i giovani andavano a scuola e le complessità, soprattutto nel sociale, aumentavano. Così a fare i capi del personale arrivarono i sociologi supportati dagli psicologi e ora ci sono anche predicatori di tutti i tipi. Ma fu un vero cambiamento o si ritoccarono le procedure perché non cambiasse proprio nulla nelle organizzazioni?
Il management ai capi del personale demandavano le rogne, ma il sistema di potere gestito da loro non cambiò di una virgola. Infatti, i capi del personale spesso si schieravano dalla parte del sindacato e dei lavoratori: un casino per chi se lo ricorda.
Anche in materia di contrattazioni i contraenti si definivano controparti con poteri squilibrati. Il mondo cambiava ma i sistemi di potere nelle organizzazioni resistevano. Il meccanismo frattanto, alla luce dei cambiamenti che già si annunciavano consistenti, si arrugginiva, sempre più farraginoso; sindacati e associazioni imprenditoriali obsoleti e sempre fuori gioco, solo gestori di grane, di finanziamenti, di aspetti marginali e lo dicono proprio loro. Proposte non se ne vedono. Ora il COVID-19 porterà cambiamenti epocali.
Come dovranno cambiare le imprese per poter adeguare se stesse, le loro organizzazioni?
Intanto studiandosi la Costituzione (avrebbero dovuto farlo da molto tempo). Solo un pezzetto.
Articolo 41
L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
La Legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata ai fini sociali.
Ci sarebbe, solo con ciò, un balzo di modernità e di civiltà nel futuro, generando fiducia e impegno, dopo settanta anni sarebbe ora di applicarla concretamente ovunque e con entusiasmo, da parte di tutti.
Quando si parla di resilienza a cosa si pensa, a un farmaco?
No, la resilienza nasce dalla fiducia, da una visione di futuro che fornisce il coraggio per superare le difficoltà. Fatti non parole.
Meno burocrazia e più coscienza dunque, per cominciare a cambiare veramente, soprattutto nella gestione delle organizzazioni. Ma come si deve fare se non ci sono medicine da comprare in farmacia?
Molte cose, cominciando dal porsi domande, tutti: lavoratori dipendenti, manager e, soprattutto gli imprenditori. Interrogarsi a proposito di se stessi abbandonando presunzioni, pregiudizi, egoismi vari. La domanda:
Che persona sono (l’essere); Cosa so di ciò che faccio (il sapere); Come lo faccio? (il saper fare). Se non si sa come rispondere meglio farsi aiutare da quelli bravi.
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